Partecipare, per grazia, all’eterna vita di Dio

29 Giu 2019

In occasione della Solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, per una ragione che sarà chiara alla lettura, iniziamo la pubblicazione delle Letture Spirituali pubblicate su 30Giorni (la prima che pubblichiamo è del numero 9-2006), che sono di stretta attualità.

Per una lettura spirituale 

In una lettera fra le tante giunte in redazione dai monasteri di clausura, ci veniva fatta la proposta di «riservare nella rivista un “angolino” di spiritualità». Accogliendo di buon grado tale invito, abbiamo pensato di offrire come lettura spirituale, cominciando da questo numero, i documenti più importanti del magistero della Chiesa sulla grazia.

Perché questa scelta? Perché, dice san Tommaso, «quod est potissimum in lege novi testamenti [.. .1 est gratia Spiritus Sancti» (Summa theologiae I-TI, q. 106 a. 1). Perché niente più della grazia dello Spirito Santo caratterizza il cristianesimo. Conviene sempre partire dall’essenziale. Ritrovandolo magari nella stringatezza di definizioni dogmatiche che, lungi dall’aridità di cui sono tacciate, sono invece umide sponde in grado di far verdeggiare la vita cristiana proprio perché custodiscono umilmente il mistero e l’operare della grazia.

Ma c’è poi un motivo di attualità che ci consiglia di partire da ciò che la Chiesa insegna sulla grazia. Infatti oggi la fede e la vita dei fedeli sono messe in pericolo non per la negazione (che nessuno si sogna di fare) ma per lo snaturamento del concetto di grazia, a cui invece si applicano in molti secondo due direttrici.

Innanzitutto considerando la grazia come un a priori. Scrive Goulven Madec, uno dei più intuitivi commentatori viventi di sant’Agostino: «Per il pelagianesimo la grazia è un dono che l’uomo ha a sua disposizione come un bene che gli sarebbe comunque già sempre dato (…). Originariamente per Pelagio l’uomo si trova sempre già in una dinamica di grazia» (La patria e la via. Cristo nella vita e nel pensiero di sant’Agostino, Roma 1993, p.234). Come non vedere che questa concezione pelagiana della grazia è diventata egemone in questi ultimi decenni in tanta teologia e in tanta predicazione? Così la preghiera non è più domanda reale ma, secondo un’espressione insuperata di Agostino, diventa «un per modo di dire» (De dono perseverantiae 23, 63) perché comunque la grazia sarebbe da sempre data.

In secondo luogo non riconoscendo, con semplicità, che l’efficacia e la visibilità della grazia sono le opere buone. In altre parole, che l’umile obbedienza ai dieci comandamenti e l’umile pratica del sacramento della confessione sono sicuro criterio di discernimento della vita di grazia. Anche a questo proposito, come non scorgere «l’orrendo e occulto veleno», per usare un’espressione di Agostino (Contra Julianum opus imperfectum II, 146), di chi pretende che la grazia scaturisca dal peccato quasi come prodotto di una dialettica? Tanto è vero che Hegel (1770-1831) parla «dell’origine del male in Dio e da Dio» e nei movimenti gnostici come il frankismo (Jacob Frank 1726-1791) non c’è più differenza tra bene e male, tra i desideri e azioni cattive e le opere buone.

Prima di pubblicare le dichiarazioni dogmatiche di antichi concili, visto che il Credo del popolo di Dio di papa Paolo VI ripropone l’essenziale della dottrina della fede, iniziamo col pubblicare i brani del Credo del popolo di Dio in cui si accenna alla grazia. La professione di fede pronunciata da Paolo VI il 30 giugno 1968 in occasione dei millenovecento anni dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo, è certamente una delle espressioni più semplici e belle con cui un Papa ha ripetuto a Gesù: «Signore, Tu sai tutto, Tu sai che ti voglio bene» (Gv 21, 17).

 

Dal Credo del popolo di Dio di papa Paolo VI

Alla eterna vita di Dio siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare

«Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni: nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso ha rivelato a Mosè (cfr. Es 3, 14); ed Egli è Amore, come ci insegna l’apostolo Giovanni (cfr. lGv 4, 8): cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che abitando in “una luce inaccessibile” (cfr. i Tm 6,16) è in Sé stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata.

Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Sé stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell’oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l’eterna vita.

I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le Tre Persone, le quali sono ciascuna l’unico e identico Essere divino, sono la beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l’umana misura.

Intanto rendiamo grazie alla Bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l’Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità».

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