Dell’Avvenire. L’Avvenire di domenica 3 giugno, oltre a pubblicare la Prefazione al libretto Chi prega si salva di papa Francesco, ha dedicato ampio spazio al volume e allo stesso don Giacomo Tantardini, con articoli e interviste. Quanti sono interessati potranno ritrovare altrove gli articoli in questione, ai quali rimandiamo.
In questa sede riportiamo solo qualche cenno. Come ad esempio la spiegazione della seconda parte della frase di sant’Alfonso Maria de’ Liguori – che recita “chi non prega si danna” – da parte dell’arcivescovo di Modena-Nonantola, monsignor Erio Castellucci, presidente della Commissione della Cei per la dottrina della fede.
Per monsignor Castellucci, con quella frase, sant’Alfonso non voleva proporre una “teoria universale” della salvezza e della condanna; la sua considerazione era mirata ai soli cristiani.
«Chi prega» spiega l’arcivescovo «mantiene quell’apertura umile e disponibile al Signore che è il requisito fondamentale per lasciare entrare nel cuore la grazia. Chi non prega si illude di tenere in mano la propria vita da solo, si chiude ermeticamente all’amore di Dio, crede di salvarsi da solo. Papa Francesco direbbe che cade nel pelagianesimo».
In effetti, anche il mensile 30Giorni denunciava l’attualità di questa antica eresia all’interno del cattolicesimo, che affida tutto all’organizzazione, al darsi da fare e altro.
Detto questo, sulla seconda parte della frase di sant’Alfonso, sulla quale si interrogano anche gli altri scritti succitati, c’è da evidenziare che don Giacomo la volle omettere.
E non certo a caso, come da ricordi dei suoi amici, né per correggere il santo. In realtà di quelle parole gli interessava quel: “Chi prega si salva”, espressione che comunica con immediatezza la felice facilità della vita cristiana.
Perché basta una preghiera, un cenno di devozione a salvare la vita (e già qui sulla terra). Come per il buon ladrone: «Gesù, ricordati di me» (leggere anche qui). Dove tutto è affidato all’infinita misericordia di Dio: così come alla stessa infinita misericordia, abitata da mistero insondabile, è affidata la seconda parte della frase.
Ma al di là di tali cenni, particolarmente bella anche un’altra parte dell’intervista di monsignor Castellucci: «Tante persone, che poi nemmeno proseguono nella pratica della fede cristiana, continuano quotidianamente e recitare, almeno in qualche circostanza, le preghiere imparate da bambini. È come il recupero costante di quella dimensione fanciullesca che abita sempre dentro di noi, anche a ottant’anni; e che mantiene viva la condizione di Gesù per “entrare nel regno dei cieli”: diventare come bambini».
Altrettanto interessante l’inizio dell’articolo di Riccardo Maccioni: «Chi prega si salva», osserva il giornalista di Avvenire, è «un libretto che racchiude in sé tutta la profondità e la sapienza della fede semplice, che si rivolge a Dio senza giri di parole o pensieri complicati ma con il vocabolario e le immagini dell’esistenza quotidiana. Non un manuale o un saggio sul “dialogo con Dio”, dunque, ma una raccolta delle preghiere più comuni della vita cristiana. Quelle imparate da bambini al catechismo o i più fortunati in famiglia, recitandole con mamma e papà».
Siamo molto grati per queste pagine di Avvenire, nelle quali c’è pure una biografia di don Giacomo scritta da Filippo Rizzi, che ha provato a tracciarne un profilo di certo interesse.
E grati per vari motivi. Per le persone che ci hanno aiutato in maniera del tutto gratuita. Perché tutto è capitato e non è stato frutto di particolare impegno, come accade per le cose che fa il Signore. Ma anzitutto, e soprattutto, perché ha aiutato la diffusione del libretto di preghiere.
Luca Romano