Don Giacomo Tantardini, Martedì Santo del 26 marzo 2002, Basilica del Santo (Padova).
Questa sera qui in questa basilica dove si conservano le spoglie di un uomo che ha voluto bene a Gesù, che è stato innanzitutto amato, prediletto da Gesù e che per questo gli ha voluto bene; questa sera è solo un gesto di preghiera al Signore perché questo ‘Crucem tuam adoramus Domine et sanctam resurrectionem tuam glorificamus’1, perché queste parole: ‘adoriamo la tua croce, rendiamo gloria, riconosciamo la tua risurrezione’ crescano sempre più nel nostro cuore e sulle nostre labbra.
Queste parole indicano la nostra salvezza. La tua croce, tua: di Gesù Cristo; la tua risurrezione: di Gesù Cristo. Quello che vorrei suggerire questa sera è tutto in queste parole che alcuni giorni fa don Giussani ci ha rivolto: “Cristo è la novità del mondo, è l’inizio della fine del mondo, è il dimostrarsi, il mostrarsi, la dimostrazione di una faccia, del perché supremo, di una forza vittoriosa sul mondo”.
Cristo è la novità del mondo. Cristo è l’inizio. Quella croce, quella risurrezione, la sua croce, la sua risurrezione è l’inizio della fine del mondo. E’ il dimostrarsi, meglio, il mostrarsi già in questo mondo di una forza vittoriosa sul mondo. Per aiutare questo riconoscimento in cui sta la nostra fede – la tua croce, la tua risurrezione – vorrei suggerire tre spunti di meditazione, tre accenni di meditazione seguendo i tre apostoli che nella chiesa più lo hanno testimoniato, iniziando da san Giovanni, dal discepolo cui Gesù voleva più bene.
Vorrei iniziare dal centro dell’Apocalisse di san Giovanni, che è una delle immagini più stupende e che più mi confortano: c’è Giovanni che piange, piange molto. Come è reale questo pianto per chi è cristiano! Piange molto perché dopo quella vittoria la storia va avanti come se quella vittoria non fosse reale. “Io piangevo molto” (Ap 5, 4) perché la storia è sigillata, la storia è un libro che nessuno può aprire. Questo pianto di Giovanni è perché la storia non riconosce la sua vittoria, perché gli uomini vivono senza riconoscere la sua vittoria. Non solo senza riconoscerla, ma è come se la storia volesse dimostrare che non Gesù Cristo ma l’uomo e quindi il principe di questo mondo e quindi Satana è più potente.
Non si può non partecipare a questo pianto di Giovanni di fronte a questo tentativo religioso: l’alternativa a Gesù Cristo non è dire che Gesù Cristo non esiste! L’alternativa a Gesù Cristo è il tentativo religioso di dimostrare che il diavolo è più potente di Gesù Cristo. E’ un tentativo religioso l’alternativa a Gesù Cristo, e Giovanni – il discepolo prediletto – piange molto. Com’è bella l’immagine di chi gli si avvicina e gli dice: “Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda” (Ap 5, 5), ha vinto l’Agnello, ha vinto Gesù Cristo. Allora il coro del paradiso canta questo canto nuovo all’Agnello che ha vinto, a Gesù Cristo che ha vinto e queste miriadi e miriadi di angeli dicono all’Agnello che siede sul trono: “onore, gloria potenza e benedizione” (cfr. Ap 5, 9-14).
Il primo cenno di questa lode, di questa meditazione, è questo grido che ha vinto Gesù Cristo. Ha vinto: morendo ha distrutto la morte. Ha vinto perché è risorto. Allora possiamo non piangere più. Poi l’Apocalisse continua con l’immagine del cavaliere, di Gesù come cavaliere che cavalca il cavallo bianco dicendo: “ha vinto e quindi esce vittorioso per vincere ancora” (cfr. Ap 6, 2). Questo tempo è il tempo dopo la sua vittoria: il tempo dopo la sua vittoria gli è dato per dimostrare, per mostrare che ha vinto. E come ci è data questa vittoria? Come a noi, poveri peccatori, noi ‘esuli figli di Eva’, come a noi è data questa vittoria? E’ data perché ci vuole bene: non voi avete scelto me ma io ho scelto voi (Gv 15, 16).
Questa vittoria è data attraverso un gesto gratuito di predilezione, questa vittoria è data attraverso i sacramenti. Come è importante in questo momento questa assoluta semplicità! La sua vittoria è comunicata a noi attraverso il battesimo. La sua vittoria è comunicata a noi attraverso la confessione. La sua vittoria è comunicata a noi attraverso l’eucarestia. Tutto è facile, tutto è semplice dopo che ha vinto. Al tentativo dell’uomo di arrivare a Dio, al tentativo dell’uomo di riscattare se stesso, come diceva il salmo dei vesperi di oggi (Sal 49, 8), di riscattare se stesso e di pagare lui il suo prezzo a Dio, perché questo è il tentativo dell’uomo: di riscattare lui se stesso.
A questo tentativo dell’uomo quella vittoria ha posto fine, quella vittoria si comunica in un gesto gratuito. Panis angelicus fit panis hominum, dat panis caelicus figuris terminum3/ il pane degli angeli è diventato il pane degli uomini, questo pane del cielo pone fine a tutti i tentativi dell’uomo¸ pone fine a tutti i sacrifici dell’uomo, pone fine a tutti i tentativi dell’uomo di salvarsi da sé, ma pone fine a tutti i sacrifici dell’uomo. Come è importante questo nel mondo in cui viviamo! Quando l’uomo crede che sia il suo dolore e il suo sacrificio a dargli la salvezza arriva ad ammazzare i figli, per offrire al diavolo il sacrificio dei figli! E’ inevitabile che quello che è accaduto nella storia accada anche oggi. Il Suo sacrificio ha posto fine a ogni sacrificio.
Il Suo sacrificio ha posto fine al tentativo dell’uomo di salvarsi con il proprio dolore. Quando l’uomo crede di salvarsi con il proprio dolore procura il dolore agli altri, diventa cattivo e procura dolore agli altri! Il Suo sacrificio, la Sua vittoria, come si cantava sempre nel Tantum ergo4: et antiquum documentum novo cedat ritui / e tutta l’antica alleanza – che è buona, quando viene da Dio e rimane umile domanda dell’uomo – ma tutta l’antica alleanza cede a questo rito così semplice che è il sacramento, che è il battesimo, che è la confessione, che è l’eucarestia.
Allora la storia è data perché questa vittoria ci venga comunicata nei sacramenti e perché questa vittoria fiorisca dai sacramenti, dalla grazia dei sacramenti, fiorisca nella nostra vita. Dalla grazia dei sacramenti, non dal nostro tentativo, ma da quella grazia fiorisca nella nostra vita! E così dice ancora Giovanni nell’Apocalisse: questo tempo è il tempo in cui questa vittoria si mostra ma è anche il tempo in cui il diavolo, sapendo di essere stato sconfitto, sapendo che gli manca poco tempo, sapendo che il Signore presto – presto! “Sì, vengo presto!”.
Presto il Signore farà vedere a tutti che Lui ha vinto – sapendo che viene presto, il diavolo diventa più feroce nei confronti di coloro che hanno la testimonianza di Gesù, nei confronti di coloro che pongono in Gesù Cristo – non in se stessi, in Gesù Cristo; non nelle loro opere, non nei loro sacrifici – pongono in Gesù Cristo la loro speranza. E così chiediamo all’apostolo Giovanni che anche a noi venga dato quello che il Signore a lui ha dato e ha richiesto: Giovanni rimane in attesa. Così finisce il suo vangelo. Giovanni, dice Sant’Agostino, è colui che rimane in attesa.
Questa è l’attività suprema del cristiano, colui che essendo prediletto può rimanere in attesa, può domandare, può aspettare il mostrarsi di questa vittoria nella storia: il comunicarsi dei sacramenti e il mostrarsi nella storia, nella mia povera vita e nella storia, il mostrarsi di questa vittoria. Il mostrarsi nella storia che non Satana, che non il diavolo ma Gesù Cristo ha vinto. Il mostrarsi nella storia. Giovanni rimane in attesa. Com’è bello –io l’ho scoperto quest’anno e quindi è per me proprio una novità grande – il Padre nostro.
Ho scoperto quest’anno che le prime tre domande del Padre nostro non hanno come soggetto noi, ma hanno come soggetto Dio, come è evidente! Padre nostro, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà. Mi ha cambiato proprio la prospettiva con cui dico il Padre nostro. Era come se nonostante tutto il soggetto fossi io, fossi io che dovevo fare la volontà del Signore, invece è il Signore che fa la sua volontà, è il Signore che comunica il suo regno, è il Signore che rende evidente a tutti che il suo nome vince, è il Signore! Allora ho scoperto che questo non vale solo per la fine, solo per il paradiso ma “come in cielo così in terra”!
Nel Padre nostro chiediamo che il Signore faccia vedere in terra l’inizio del suo regno, il Signore faccia vedere in terra che il suo nome – nome vuol dire la sua presenza potente – che il suo nome è riconosciuto come potente, come capacità di salvare, come capacità di abbracciare il cuore, come capacità di difendere i suoi, i suoi prediletti, che il suo nome, che il suo regno si veda in terra. Ecco, Giovanni rimane in attesa, in attesa come il bambino, di vedere questa vittoria.
Il secondo accenno è su San Paolo. Di San Paolo suggerisco tre cose. La prima la prendo dagli Atti degli Apostoli per quella frase, detta da un romano, dal procuratore Festo che aveva in carcere questo – per lui giudeo – di nome Paolo (At 25, 13-18). Quel giorno in cui il re Agrippa e la moglie Berenice sono venuti a trovare il procuratore romano Festo.
Festo racconta l’episodio di questo ebreo che aveva in carcere e dice che da Gerusalemme erano venuti in molti ad accusare Paolo, ma secondo la legge romana non si può condannare uno prima che questi abbia potuto difendersi. Allora racconta ad Agrippa e Berenice che aveva fatto venire in tribunale gli accusatori e aveva portato Paolo perché si potesse difendere, credendo che avessero contro di lui accuse di crimini per condannarlo, invece “avevano solo con lui alcune questioni relative la loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita” (At 25, 19).
Questo è il cristianesimo, questo! Il cristianesimo è un certo Gesù, morto, che Paolo – e questa sera anch’io, più peccatore di tutti voi – anch’io sostengo che è ancora in vita. Questo è il cristianesimo, solo questo! Solo questo: un certo Gesù, morto, che Paolo – e noi questa sera – sosteniamo che è ancora in vita. Questo!
Fides Christianorum resurrectio Christi est6 dice Sant’Agostino / la fede dei cristiani è la resurrezione di Cristo. Forse Agostino dice questo perché a Milano nella notte di Pasqua quando è stato battezzato – secondo la liturgia che ancora adesso a Milano c’è – prima di iniziare la messa il vescovo per tre volte grida: Christus Dominus resurrexit / Cristo Signore è risorto. E’ accaduto che sia risorto quel mattino di pasqua: Cristo Signore è risorto. Questa è la fede cristiana.
Il secondo accenno è al termine della lettera ai Romani. La lettera ai Romani è – possiamo dire – la lettera teologicamente più compiuta dell’Apostolo Paolo. Eppure alla fine c’è una piccola frase che – a dire il vero – non ho mai sentito citare, invece secondo me dice tutto di Paolo e di quella lettera: “Io non oserei parlare se non di quello che Cristo ha operato” (Rm 15, 18). Se è risorto lo si vede che è risorto perché opera: Paolo parla di quello che Cristo opera.
Se è risorto, siccome è risorto lo si vede operare. E’ in quello che compie, è in quello che opera che l’uomo con stupore e commozione riconosce che è vivo, riconosce che è risorto. Paolo dice: “io non oso parlare se non di quello che Cristo opera”. Poi aggiunge “attraverso di me”, poi dice “con parole e opere, con segni e miracoli con la potenza dello Spirito Santo”. Paolo vive perché Cristo, vivo, opera.
Se leggete le lettere di Paolo è una cosa dell’altro mondo la debolezza di Paolo, la debolezza di questo uomo, la debolezza umana di questo uomo, che vive solo perché riconosce ciò che Cristo opera, perché riconosce nei fatti che gli accadono, perché riconosce nel volto di Tito, quando Tito arriva a Corinto e Paolo prima dell’arrivo di Tito non riusciva neppure a parlare (2Cor 2, 12-13), ma quando il suo amico Tito è arrivato e gli ha testimoniato col suo volto e la sua vita la grazia del Signore, quello che il Signore operava, allora Paolo è rinato (2Cor 7, 6;13).
E’ così. La nostra fragilità è una cosa grande! E’ il segno che se Gesù Cristo non opera, se Gesù Cristo non agisce, se la grazia del Signore non fa compagnia non siamo niente. “Io non sono niente” cosi ancora Paolo alla fine della seconda lettera ai Corinti: “io non sono niente” (2Cor 12, 11).
L’ultimo cenno di Paolo è dalla lettera ai Galati, quando dice: “la vita che vivo nella carne” (Gal 2, 20). Nella carne vuol dire la fragilità, nella carne vuol dire anche nella fragilità fino al peccato: povero peccatore. Cristo Gesù è venuto nel mondo per i peccatori, dei quali il primo sono io – scriveva Paolo al suo figlio Timoteo (1Tm 1, 15). “La vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me”.
Che mi ha amato: quel Gesù vivo, che si dimostra, che si mostra vivo perché opera è quel Gesù che mi ha amato e ha dato se stesso per me, è quel Gesù che è risorto dopo essere morto per me sulla croce. Che mi ha amato! Pensate a Paolo, a questo grande apostolo che dice con questa tenerezza di bambino, dice: “che ha amato me – me! – e ha dato se stesso per me”.
Concludo con un accenno all’apostolo Pietro iniziando dalla frase che si leggeva oggi nel vangelo: Pietro che in questo impeto dice a Gesù: “io darò la vita per te” (Gv 13, 37). Come è grande umanamente l’impeto di Pietro, che dà la vita per il Signore! Era vero che gli voleva bene, anche umanamente, immediatamente, umanamente gli voleva bene.
Era l’unica grande cosa che aveva incontrato nella vita, da quel giorno in cui suo fratello gli aveva detto: “abbiamo incontrato il messia” (Gv 1, 41), dal giorno in cui aveva guardato la faccia di suo fratello Andrea ed era rimasto commosso perché non l’aveva mai visto così, non aveva mai visto la faccia di suo fratello così. Dal giorno in cui suo fratello Andrea l’ha preso e l’ha condotto da Gesù (Gv 1, 42).
Gli voleva bene Pietro, era sincero, come era sincero quando disse: “darò la vita per te”. E Gesù gli dice: “Darai la tua vita per me?” (Gv 13, 38). Che tenerezza, che abbraccio anche in questo impeto! E’ abbracciato anche questo impeto! Eppure: “questa notte stessa prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte”.
Eppure questo impeto così sincero non dà la possibilità di essere fedeli. Non è il nostro impeto sincero, non è il nostro proposito sincero che dà a noi la possibilità di non abbandonarlo, dà a noi la possibilità di non lasciarlo: “lasceretelo voi per altro amore”7. Lo si lascia, un’ora dopo, anzi ancora prima: già nell’orto degli ulivi si è addormentato. Lo si lascia “per altro amore”.
E così il pianto di Pietro. Quante volte ci siamo detti che non piange per il peccato. Il dolore non nasce dal peccato: dal peccato nasce la schiavitù, dai peccati nasce il vizio. Il dolore nasce da: “e Pietro si ricordò di quello che Gesù gli aveva detto” (Mt 26, 75). Il dolore nasce dalla memoria, il dolore nasce da quella presenza, il dolore nasce da quello sguardo: “e Gesù guardò Pietro e Pietro pianse”. Il dolore nasce per una iniziativa Sua, non nasce da noi il dolore dei nostri peccati, nasce per iniziativa del Signore: “e Gesù guardò Pietro e Pietro pianse”.
“E Pietro si ricordò”. Il ricordarsi, la memoria è grazia Sua. Si è ricordato magari della prima volta che lo ha guardato, quel primo giorno quando Andrea lo ha accompagnato da Gesù. Si è ricordato magari di quando gli ha detto: “Beato te Pietro perché non da te, ma il Padre ti ha rivelato quello che sono” (cfr Mt 16, 17). Si è ricordato tutti i gesti di predilezione del Signore: quel ricordo, quella memoria ha generato quelle lacrime.
Poi dopo la resurrezione quando Gesù allora gli chiede: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?”. (Gv 21, 15-17). Quante volte abbiamo ricordato questa domanda, questa domanda che anche a ciascuno di noi è rivolta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?”. Non c’è nulla di più facile che dirgli di sì, non c’è nulla di più facile! Tutta la morale cristiana sta in questo dirgli di sì: nasce qui e rimane qui. Non è che nasce qui e poi si fa altro. Nasce qui e si attesta su questo sì. Non c’è niente di più facile che dirgli di sì: “Si, tu sai che ti voglio bene”.
E’ la cosa più facile di questo mondo e glielo si può dire l’istante dopo il peccato più grave, l’istante dopo il delitto più grave, quando questa domanda, la Sua domanda, il Suo sguardo, la Sua memoria tocca il cuore, quando questa domanda si fa presente al cuore: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi tu bene?”. “E Pietro si rattristò che per la terza volta gli domandasse: mi vuoi tu bene?” come se non fosse evidente che gli voleva bene; invece era evidente che gli voleva bene e gli disse: “Signore tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene”.
Così al sacrificio dell’uomo, ai sacrifici degli uomini, al tentativo dell’uomo – che nasce buono perché nasce dal cuore dell’uomo ma che decade in presunzione e in perversione. E’ così; basta leggere i salmi che descrivono questa presunzione e questa perversione della religiosità umana. A questo tentativo che nasce buono ma che per il peccato decade in presunzione e in perversione – a questo tentativo ha posto fine il Suo sacrificio, ha posto fine la Sua vittoria, ha posto fine la Sua presenza, ha posto fine la Sua carità.
Così concludiamo recitando ancora una volta, citando ancora una volta la frase di Santa Teresa di Gesù bambino: “quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me”. Così lo si riconosce vivo, vivo! “Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me”. Solo uno vivo, solo una persona viva, solo quel Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita. La carità è l’azione di questo Gesù morto che Paolo e ciascuno di noi, poveri peccatori sosteniamo per grazia, sosteniamo per commozione del cuore, sosteniamo perché siamo così amati, sosteniamo che è ancora in vita.
1. Adoramus te, Domine, Jesu Christe et benedicimus tibi, quiam per sanctam crucem tuam redemisti mundum. Crucem tuam adoramus, Domine: Et sanctam resurrectionem tuam, tuam laudamus et glorificamus. Ecce enim propter lignum, venit gaudium in universo mundo. Deus misereatur nostri et benedicat nobis. Illuminet vultum suum super nos et misereatur nostri.
2. L. Giussani, editoriale di Tracce, marzo 2002.
3. San Tommaso d’Aquino, inno Sacris solemniis. Liturgia per la solennità del Corpus Domini.
4. San Tommaso d’Aquino, inno Tantum Ergo Sacramentum. Liturgia per la solennità del Corpus Domini.
5. Agotino, In Evangelium Ioannis CXXIC,5.
6. Agostino, Enarrationes in psalmos 120, 6, 4.
7. Fra Marc’Antonio da San Germano, Cristo al morir tendea