Pubblichiamo alcuni brani di una meditazione tenuta da don Giacomo Tantardini il Martedì Santo – 2 aprile del 2007 – a Padova (chi volesse leggere l’integrale, cliccare qui).
[…] Rileggendo la Passione secondo san Luca, e così questa sera vorrei solo aiutare un gesto di preghiera, un desiderio e una domanda del cuore; una gratitudine, una preghiera e una domanda.
Vorrei proprio solo suggerire l’immagine del buon ladrone, perché secondo i Padri e soprattutto secondo sant’Ambrogio, guardando il buon ladrone crocifisso alla destra di Gesù uno capisce che il cristianesimo non è una cosa difficile, non è una cosa faticosa, uno capisce che il cristianesimo è un istante di sguardo e di domanda: un istante.
Quando sant’Ambrogio scrive l’inno di Pasqua Hic est dies verus Dei in fondo lo scrive tutto sull’immagine del buon ladrone e dice: «Chi non è strappato dalla paura pensando al fatto che il Signore assolve in un istante questo assassino?»
Noi siamo strappati dalla paura pensando che in un istante questo assassino è stato assolto. Su questo brano del vangelo vorrei suggerire queste cose: innanzitutto si è trovato lì per caso. Com’è bello questo. I due assassini – perché se erano stati condannati alla croce dovevano aver commesso dei delitti – erano lì per caso.
Quello alla sua destra si è trovato lì per caso, per puro caso si è trovato lì vicino a Gesù. Potremmo dire che si è trovato lì a causa dei suoi delitti e anche questo ha una parte di vero.
Ma che si sia trovato lì messo in croce accanto a quel crocifisso che si chiamava Gesù non l’ha scelto lui: si è trovato lì. E così mi viene in mente che non solo all’inizio, ma in ogni passo della vita cristiana c’è qualcosa che viene prima del nostro decidere, prima anche del nostro domandare.
[…] Che cosa fa questo assassino crocifisso alla destra di Gesù dopo aver detto (e in questo gesto c’è tutta l’umiltà di riconoscere le cose così come sono) all’altro suo compagno di condanna a morte: «Noi siamo condannati giustamente, lui invece non ha fatto nulla di male»? Guardando Gesù dice: «Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo regno». «Gesù, ricordati di me»: questo è il cristianesimo.
È semplice il cristianesimo, non è faticoso, non è difficile per i poveri, per gli umili, così come è stato umile questo ladrone, questo assassino. È semplicemente questo riconoscimento, questa confessio, questa supplex confessio. Tutti i preti, quando dicevano messa in latino dicevano questa parola, prima del Sanctus: supplex confessio, un riconoscimento che domanda.
Ha solo riconosciuto e domandato, ha guardato, ha riconosciuto e domandato: «Gesù, ricordati di me». E ha potuto dire «Gesù» perché c’era Gesù. Anche la sua domanda nasceva dal fatto che c’era Gesù. Se Gesù non fosse stato crocifisso lì alla sua destra, non avrebbe potuto dire «Gesù».
Anche la nostra domanda nasce dalla sua presenza, nasce dal fatto che per primo lui ci precede, così come il mattino di Pasqua alle donne dirà di andare a dire ai discepoli che li avrebbe preceduti in Galilea. Anche quel dire «Gesù, ricordati di me» nasce perché c’è Gesù.
E questo è stupendo. Perché se è così, è possibile. Se nascesse da noi la domanda, non sarebbe sempre possibile, perché noi non solo siamo fragili, ma siamo anche cattivi, molte volte siamo distratti con cattiveria. Invece la domanda nasce per la sua presenza, nasce perché c’è Gesù.
Allora, di fronte alla sua presenza, è semplice. È stato semplice per questo assassino dire «Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo regno». «Qui latroni confitenti paradisi ianuas aperuisti», dice la liturgia ambrosiana. Tu che all’assassino – latroni – che ti ha riconosciuto – confitenti: che ha detto solo «Gesù», ha detto solo questo, ti ha riconosciuto – hai aperto le porte del Paradiso.
Terzo suggerimento: cosa risponde Gesù? «Oggi sarai con me in Paradiso». Oggi vuol dire “in quell’istante”, nell’istante in cui guardando gli ha chiesto «Gesù, ricordati di me», non dopo. In quell’istante i suoi peccati non erano più un peso, erano la dolcezza, offrivano contenuto alla dolcezza di essere così amato. Anche i suoi peccati, anche i delitti per cui era condannato non erano più un peso quando si è sentito dire «Oggi sarai con me in paradiso».
I suoi delitti non erano più un peso in quell’istante. Il passato non era più un peso in quell’istante. La Lettera agli Ebrei dice in maniera stupenda che per l’antica legge il passato è il ricordo dei peccati. Lì invece no, non era più il ricordo dei peccati, i peccati aggiungevano dolcezza a quell’«Oggi sarai con me in paradiso».
Erano trasformati i gravi peccati per cui era giustamente condannato, come lui stesso dice: «Noi giustamente siamo condannati a morte», perché neppure uno iota della legge viene censurato. I suoi peccati per cui era condannato a morte sono trasfigurati in gratitudine e dolcezza oggi, in quell’istante.
[…] In questa dolcezza dell’«Oggi sarai con me in paradiso», certamente Maria ai piedi della croce, certamente Giovanni, il discepolo che lui amava, ma in quella dolcezza anche questo povero peccatore, anche il buon ladrone ha imparato ad imitare Gesù quando ha detto «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
Come è stato semplice perdonare anche per lui, anche per questo povero peccatore. In quella dolcezza si impara a imitare Gesù. Quando si è abbracciati dal suo amore che ci ama per primo, quando ci si lascia abbracciare dal suo amore, in quella dolcezza, quasi senza accorgersi, si impara ad imitare.
Come abbiamo cantato nello Stabat Mater: «Fac ut ardeat cor meum in amando Christum Deum». Fa che il mio cuore arda, che il mio cuore sia pieno di commozione nell’amare Cristo Dio, così da piacergli. Si impara a imitare, si impara a ubbidire: «Chi mi ama osserva i miei comandamenti», chi mi ama! In questa dolcezza è stato semplice per questo povero peccatore imparare a imitare.
[…] L’ultima cosa. Innanzi tutto dico la terza cosa che mi ha così sorpreso nell’esortazione del Papa. Ne fa addirittura un paragrafo, quando dice che la Sua presenza «dat figuris terminum», mette fine a ogni simbolo, a ogni immagine. Non c’è più bisogno di simboli quando c’è la sua presenza, mette fine ad ogni simbolo, ad ogni immagine.
[…] Basta dire «Gesù, ricordati di me». È la cosa più semplice. La sua presenza mette fine a ogni tentativo dell’uomo di raggiungere il mistero lontano. La sua presenza mette fine al tentativo dell’uomo. È buono il tentativo, è secondo ragione, ma è così triste.
Invece la sua presenza, la dolcezza della sua presenza mette fine a questo tentativo. Come siamo fortunati: la vita cristiana è sempre identica all’istante del battesimo. In quell’istante, da figli dell’ira siamo diventati figli di Dio.
È così la vita cristiana, è sempre in un istante di riconoscimento e di domanda e tutto il peso del peccato, magari di un momento prima, è come (anzi, non “come”) è evacuato e diventa dolcezza di gratitudine per essere così amati.
Come siamo fortunati che la vita cristiana sia semplicemente questo riconoscimento che domanda: «Gesù, ricordati di me». Come siamo fortunati che la vita cristiana sia semplicemente l’«amen» al corpo di Cristo. Cosa c’è di più semplice davanti alla sua presenza reale e sostanziale – «corpo di Cristo» – del «così sia»?