Nella precedente nota avevamo pubblicato una vecchia omelia di papa Francesco, allora ancora cardinale, pubblicata su 30Giorni, nella quale il presule accennava alla dinamica dell’azione dello Spirito Santo, che, quando tocca il cuore dell’uomo, ne consola l’usuale affanno e lo rende bambino.
A corollario di quella nota pubblichiamo una Breve di 30Giorni (numero 1-2 del 2009), che riprendeva un intervento di Carlo Ossola sulla Divina Commedia.
Carlo Ossola, nel recensire, sulla Domenica de Il Sole-24Ore del 22 febbraio (p. 25), una nuova edizione illustrata della Divina Commedia, scrive: « Da quel canto [XXI] in poi Dante moltiplica le figure di ineffabilità, si presenta – sin dall’inizio del canto seguente – come “fantolin” infans, incapace di parola, bisognoso di madre e di rifugio: “Oppresso di stupore, a la mia guida / mi volsi, come parvol che ricorre / sempre colà dove più si confida; / e quella, come madre che soccorre / sùbito al figlio pallido e anelo / […]” (XXII, 1-5).
Più ancora l’immagine si dispiegherà nel canto successivo con le celebri terzine: “E come il fantolin che ‘nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ‘l latte prese, / per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma; / ciascun di quei candori in su si stese / con la sua cima, sì che l’alto affetto / ch’elli avieno a Maria mi fu palese” (XXIII, 121-126).
“Parvoletti” saranno ancora nel XXVII del Paradiso e “fantolino” e “balia” appariranno nel finale del XXX canto: Dante si fa piccolo, come se applicasse a sé, entrato nel cammino di salvezza nella piena maturità: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, la massima evangelica: “Nisi efficiamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum caelorum” (Mt 18, 3).
L’ultimo canto del Paradiso sarà compimento di quelle figure, afasia di lattante: “Ormai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella” (XXXIII, 106-108). Eppure quello è il canto nel quale Dante, come ha ricordato Curtius, ricapitola tutte le autorità dei classici di cui è erede e compimento: non solo san Bernardo, che eleva la mirabile preghiera alla Vergine (“Vergine Madre, figlia del tuo figlio”), ma il Virgilio dell’Eneide (“così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla”: XXXIII, 65-66), e la tradizione greca degli Argonauti (“Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinque secoli a la ‘mpresa / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo”: 94-96).
È mai possibile che quel Dante, che si erge come summa ultima di tutta la classicità, si presenti biologicamente come “parvoletto”?
Anche qui – e sino a oggi non è mai stato osservato dalla critica – Dante convoca l’autorità più alta dei Padri della Chiesa, quel sant’Agostino ch’egli pone al sommo del Paradiso: “Francesco, Benedetto e Augustino” (XXXII, 35).
E infatti proprio sant’Agostino, nell’ultimo libro delle Confessioni, celebra la lode del creato e invoca la visione della beatitudine ultima, assegnando “agli infanti e ai lattanti” l’innocente palpito di quella suprema lode: “O Signore, fa’ che possiamo vedere i cieli, opera delle tue mani! Sgombra dai nostri occhi le nubi di cui li hai velati. Ivi è la tua testimonianza che dà sapienza ai fanciulli. Rendi completa la tua lode dalla bocca degli infanti e dei lattanti” (“Perfice, Deus meus, laudem tuam, ex ore infantium ac lactantium”: Confessiones XIII, 15). Perfice: Dante così portava a compimento la lunga “loda” dell’umanità, infante in figura e Padre della Chiesa del tempo ultimo».