Pubblichiamo un’omelia di don Giacomo Tantardini. È salito al cielo il Signore, quaranta giorni dopo la sua risurrezione, come abbiamo ascoltato nella prima lettura. Per quaranta giorni è apparso ai suoi discepoli con prove evidenti, così che potessero essere certi che era risorto nel suo vero corpo. Ha mangiato con loro dopo la sua risurrezione: non solo visto, non solo toccato da loro, ma ha anche mangiato con loro, così che fosse evidente che aveva ripreso dal sepolcro il suo corpo, trasfigurato per la potenza della risurrezione. E poi, sotto il loro sguardo, è salito al cielo. Come è bello il cenno del vangelo: “Guardandolo salire al cielo”; e come è bella la promessa degli angeli che Egli ritornerà allo stesso modo “con cui l’avete visto salire al cielo”.
È salito al cielo: nell’Inno della liturgia ambrosiana dell’ascensione si descrive lo stupore degli angeli e degli arcangeli e di tutte le gerarchie del cielo; lo stupore degli angeli nel vedere il corpo del Signore (con le sue piaghe gloriose, con i segni gloriosi della sua passione) salire alla destra del Padre. È salito con la nostra povera umanità, con la nostra povera e fragile umanità, trasfigurata dalla potenza della sua risurrezione; con il nostro corpo, proprio come il nostro, con la nostra carne, con la nostra umanità così debole e così fragile, non più debole e non più fragile dopo la resurrezione.
Così i discepoli, dice Luca, pieni di gioia sono ritornati a Gerusalemme. Pieni di gioia perché aveva promesso, non solo di inviare lo Spirito Santo, ma anche che, salendo al cielo, avrebbe agito di più, avrebbe compiuto cose più grandi dei miracoli che aveva compiuto sulla terra; salendo al cielo, alla destra del Padre, avrebbe vissuto, se così possiamo dire, pregando per noi, intercedendo per noi. “Ora che è salito al cielo – dice Ignazio di Antiochia – si manifesta di più”. Agisce di più.
E cosa hanno fatto i discepoli che, con gioia, lo hanno visto salire al cielo? Come ha detto il papa alcuni mesi fa parlando ai vescovi riuniti nel sinodo, i discepoli non si sono messi a fare qualcosa, non si sono messi a voler fare qualcosa. Sono stati in attesa dello Spirito Santo. E poi il papa ha aggiunto: sempre la Chiesa è creata dalla grazia dello Spirito Santo. Così quelli che sono rimasti, quando Lui è salito al Padre, quelli che sono rimasti, sono rimasti in preghiera. La preghiera è totum summumque negotium dice sant’Agostino, è la sola attività totalizzante dei discepoli rimasti sulla terra.
La preghiera che si manifesti, che si manifesti di più, che agisca come agiva negli anni in cui era con loro sulla terra, che compia i miracoli come li compiva quando si commuoveva di fronte alla sofferenza e al dolore degli uomini. Come quando era sulla terra: che agisca di più, che si manifesti di più, che doni la grazia del suo Spirito, che doni la dolcezza del suo Spirito; quello Spirito che è nostro avvocato, quello Spirito che è nostro difensore contro il diavolo che ci accusa, quello Spirito che è la dolcezza, che è il conforto del nostro povero cuore.
Così è la preghiera. La preghiera è lo sguardo, la preghiera è guardare a lui domandando che venga: “Vieni Signore Gesù!”. Perché anche la domanda, anche il guardare a Lui e non essere ripiegati su noi stessi, è grazia sua. Lo Spirito Santo e la Chiesa dicono: “Vieni”. Perché chi ascolta questo “vieni”, risponda: “Sì, vengo presto”….“Vieni, Signore Gesù!”.